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Cosa si nasconde dietro l’arte di James Turrell?

4/29/2020

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Osservando una delle numerose opere di luce di James Turrell, è quasi naturale domandarsi perché ne siamo così attratti.

È l’intensità dei colori? La bellezza delle forme create? Certo, ma non solo. L’artista statunitense ha un paio di assi nella manica molto efficaci per affascinare i propri spettatori: psicologia e scienza.
Non è molto noto che Turrell abbia, infatti, una prima formazione non da artista, ma da psicologo. L’arte è arrivata dopo la laurea in psicologia, quando decise, nel 1966, di aderire al neo formatosi movimento del Light and Space. Pur non proseguendo gli studi in psicologia, Turrell ha sempre fatto grande uso di ciò che ha imparato. L’ingrediente principale delle sue opere è la percezione, l’esito più evidente è l’utilizzo dell’effetto percettivo del ganzfeld nella famosa serie delle opere così denominate.
Tutto qui? Assolutamente no. Turrell, all’università, ha frequentato anche dei corsi di matematica, astronomia e scienza. La sua fascinazione per il cielo e le stelle, che lo accompagna dall’infanzia, si manifesta nella sua opera in itinere più recente: il Roden Crater, capolavoro di unione tra terra e cielo.
I suoi studi scientifici hanno un risvolto anche anatomico: Turrell ha studiato la conformazione dell’occhio e le onde cerebrali trasmesse dalla visione. Utilizza queste sue conoscenze a suo vantaggio. Negli Skyspace, gli basta cambiare il colore delle “finestre sul cielo” per influenzare i nostri fotorecettori e alterarne il colore del cielo; nei Ganzfeld, manipola e abbassa la frequenza delle onde cerebrali trasmesse dall’occhio per introdurre nello spettatore uno stato passivo, quasi di trance.
Alla fine, cosa rende così accattivanti – e quasi divertenti – le opere di James Turrell? L’esperienza percettiva unica che ci permettono di fare. Turrell quasi ci prende in giro, ci fa vedere cose che non ci sono, crea sagome tridimensionali con soli fasci di luce e ci immerge nel colore fino al punto di farci vedere il cielo viola o giallo. Ci mette davanti alle imperfezioni del nostro apparato percettivo e ci fa comprendere la relatività di tutto quello che vediamo. È esattamente questo che ci affascina: la possibilità di vedere qualcosa che non abbiamo mai visto.
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Vedere una mostra fa bene alla salute e all’umore

4/28/2020

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La neuroscienza lo dimostra: quando contempliamo un capolavoro si attiva l’area celebrale del piacere. L’arte può suscitare emozioni talmente intense da attutire il dolore sordo dello spirito. È il potere curativo della Grande Bellezza

Nel Settecento, per sfuggire alla nube dell’umore cupo, gli inglesi erano mandati in viaggio in Italia, a visitare siti archeologici e gallerie di dipinti. La tristezza veniva dislocata, con la speranza che la grandeur monumentale di Roma o il fascino delle colonne spezzate nella Magna Grecia lenissero la malinconia.
In un certo senso, i medici di allora avevano ragione. L’arte può suscitare emozioni talmente intense da attutire il dolore sordo dello spirito. È la bellezza a echeggiare in noi. La coppia che volteggia a mezz’aria ne La Passeggiata di Chagall o La notte stellata di Van Gogh possono riverberarsi nella mente, indurre cambiamenti nei percorsi dei neuroni e produzione di sostanze chimiche.
«La ricerca della bellezza, in cui arte e cultura sono strumenti importanti, può essere un elemento rilevante per il raggiungimento di quella qualità della vita alla quale tutti aspiriamo», scrive il neurochirurgo Giulio Maira nel suo recente libro Il cervello è più grande del cielo (Solferino).
«D’altra parte, anche la percezione della bellezza come massima espressione e realizzazione della nostra realtà è parte del raggiungimento della felicità. Se ci pensiamo, noi siamo circondati dalla bellezza, tutto il nostro mondo è permeato di bellezza e armonia, basta guardarsi attorno per scoprirlo negli elementi della natura e nelle opere dell’uomo, dai semplici fiori di campo alle opere degli artisti di tutti i tempi».

Una mostra migliora l’umore
Secondo uno studio norvegese, pubblicato sul Journal of Epidemiology and Community Health, andare a visitare le mostre migliora gli stati d’animo. La ricerca ha esaminato per tre anni oltre 50mila persone, sottoponendole a questionari sulle attività creative e culturali svolte e sul loro umore. Si tratta di una delle prove a sostegno di come anche la contemplazione dell’arte possa essere uno strumento utile in una terapia per combattere gli stati depressivi.

Perché un quadro ci incanta?
Ma perché La Nascita di Venere di Botticelli produce un piacere intenso nei visitatori degli Uffizi? E perché lo stesso accade con Le Ninfee di Monet al Museo dell’Orangerie? E con la Las Meninas di Velázquez al Prado (che a novembre 2019 ha festeggiato i suoi duecento anni di vita)?
Qualche lustro fa, nel 1994, il neurobiologo Semir Zeki, docente all’University College di Londra, ha fondato la neuroestetica, una disciplina che si propone di indagare i meccanismi coinvolti nell’esperienza estetica, cercando di capire che cosa si metta in moto nel nostro cervello quando dinanzi ai nostri occhi appare un capolavoro come quelli di Leonardo.
«Nessun quadro ci parla più della Gioconda e nessuno ci riguarda più di lei, perché noi avvertiamo che supera la materia della pittura per diventare una presenza in carne e ossa», scrive Vittorio Sgarbi nel suo ultimo saggio, Leonardo, il genio dell’imperfezione (La Nave di Teseo): «È questa la potenza dell’arte e la potenza di Leonardo: darci un’immagine viva».
Il meccanismo dell’emozione
Il neurobiologo Zeki ha condotto un esperimento con la risonanza magnetica funzionale (ne riferisce la rivista Plos One): consisteva nell’osservazione del cervello di 21 persone, mentre erano intente a guardare un certo numero di opere d’arte. Quando i volontari si trovavano di fronte a un quadro che giudicavano meraviglioso, si accendeva una zona in particolare: l’area orbito-frontale, coinvolta nei centri cerebrali del piacere.
«La bellezza si accompagna sempre all’attività neurale di una specifica parte del cervello deputata all’elaborazione delle emozioni che si chiama field A1 e che si trova nella corteccia orbito-frontale mediale», ha spiegato lo scienziato. «Questa attività è anche quantificabile. Più intensa è l’esperienza del bello, più intensa sarà l’attività registrata nell’area».
Si aggiunge un dato veramente curioso: ad attivarsi in chi guardava i dipinti era anche il nucleo caudato, un’area cerebrale molto profonda, la stessa che è messa in moto dall’amore romantico. Zeki ha dedotto che esista una specie di correlazione fra la bellezza dell’arte e quella della persona desiderata.
È questo meccanismo a essere in larga misura responsabile delle emozioni e della sensazione di piacere intenso che deriva dal guardare il Suonatore di liuto di Caravaggio all’Hermitage o uno dei volti dipinti da Artemisia Gentileschi.

L’artista è come un neurologo

​Uno spunto che deriva dagli studi di neuroestetica fa il paio con le riflessioni che esprimeva il filosofo David Hume nel Settecento: «La bellezza delle cose esiste nella mente di chi le osserva». È negli occhi di chi guarda che diventano davvero e inderogabilmente splendidi il quadro del museo, il fisico scultoreo di un attore o il viso dell’amante. Quando la stimolazione della corteccia visiva suscita un’emozione forte.
Ma è anche vero quanto ha scritto lo scienziato Lamberto Maffei: «L’artista è una sorta di raffinato neurologo che sa trovare gli stimoli adeguati per eccitare il cervello e l’arte è una droga buona alla quale è fisiologico, e forse anche terapeutico, assuefarsi».

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L’arte è sempre più una terapia: i poteri curativi della pittura e del disegno

4/28/2020

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Pazienti in visita ai musei, laboratori in corsia, ospedali che sembrano una galleria. Si moltiplicano le iniziative che sfruttano i poteri curativi dell’arte. Ecco cosa succede in Italia

Si chiama “The Arte Hive” ed è una sperimentazione da poco partita in Canada; dallo scorso primo novembre ogni medico di base ha la possibilità di prescrivere ai propri pazienti una visita al museo. L’intero percorso è totalmente gratuito per i pazienti e per chi li accompagna. Ogni medico ha a disposizione 50 visite per altrettanti pazienti. Un passo decisivo verso l’arteterapia, una tecnica utilizzata ormai anche in diverse strutture ospedaliere in Italia. In poche parole, il patrimonio artistico non è solo una gioia per gli occhi. È anche di grande aiuto a chi sta combattendo contro la malattia. Ecco cosa succede nel nostro Paese.

Per le vittime di bullismo e non solo
L’arte è entrata nelle corsie dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano 3 anni fa, trasformandole in una casa accogliente, piena di vita e di colori. Il progetto ha coinvolto 19 artisti famosi, che hanno lavorato gratuitamente per dipingere le 16 stanze e gli spazi comuni della casa pediatrica dell’ospedale, trasformandola in una collezione unica nel suo genere, arricchita da una sezione fotografica.
Ma l’arte viene utilizzata anche per proporre ai giovani attività artistico-espressive che permettono loro di “parlare” di vissuti difficili. Attualmente nel laboratorio di ricerca di terapeutica artistica, diretto dalla professoressa Tiziana Tacconi e dal professor Luca Bernardo, si conducono progetti per ragazzi con disturbi di comportamento e di apprendimento, disturbi alimentari, vittime del bullismo, adolescenti autistici, dislessici e con differenti tipi di handicap, come per esempio i bambini affetti da sordità.
Per i disturbi alimentari 
È partito nelle Marche un progetto disciplinare promosso dalla Fondazione Ospedale Salesi onlus e dall’Unità operativa di neuropsichiatria di Ancona, rivolto ai ragazzi fra 13 ed 18 anni affetti da problemi alimentari. Anoressia, bulimia, obesità, alimentazione incontrollata, patologie complesse caratterizzate da tanta sofferenza e da una percezione alterata del proprio corpo vengono affrontati attraverso l’arte e la cultura.
Una volta alla settimana un gruppo di lavoro composto da un’arteterapeuta, una psicologa e una nutrizionista incontra gli adolescenti ricoverati per questi disturbi all’Ospedale Salesi; nel progetto sono coinvolti anche i genitori. I pazienti attualmente in carico nella struttura sono 120 provenienti da tutta la Regione; 800 circa le visite annuali, anche per adolescenti fuori dai confini marchigiani.
Per i malati di Alzheimer
Dal 2013 è attivo in modo permanente il progetto “A due passi nei musei di Milano”, un percorso museale, visivo e pratico studiato per chi è affetto da Alzheimer. Parte ogni anno a ottobre e si conclude a giugno, per gruppi di 10-12 malati, e coinvolge le Gallerie d’Italia, il Museo Poldi Pezzoli e la Pinacoteca di Brera.
Il progetto, totalmente gratuito, è finanziato dalla Fondazione Manuli, onlus nata con l’obiettivo di aiutare in modo concreto e professionale i malati di Alzheimer e le loro famiglie. Funziona così: ogni settimana per due ore i pazienti, dopo aver guardato alcune installazioni artistiche, svolgono un laboratorio con materiali di vario genere. «L’arte è un ponte privilegiato per offrire al malato l’opportunità di fare esperienza di sé e dell’ambiente che lo circonda», spiega Emanuela Galbiati, arteterapeuta e curatrice del progetto. «Stimola la creatività e i benefici psicologici per malati e familiari sono rilevanti».
Per gli adolescenti affetti da dipendenze e le famiglie in crisi
È nato la scorsa primavera il Dipartimento di arteterapia del Museo Carlo Zauli a Faenza. Zauli fu uno degli artisti più originali e interessanti del 900 italiano: ceramista, scultore, designer, morì nel 2002 e da allora le stanze del suo studio sono state trasformate in un museo. «Noi del Dipartimento organizziamo laboratori individuali o di gruppo», spiega Anna Maria Taroni, arteterapeuta e coordinatrice del progetto: «Esistono gruppi per bambini con difficoltà di comportamento e adolescenti affetti da dipendenze, per famiglie in crisi che vogliono ritrovare un dialogo, percorsi di arteterapia per singoli: donne e uomini con disturbi alimentari e madri in difficoltà». Con la dottoressa Taroni lavorano avvocati, psicoterapeuti. Chi partecipa a queste attività viene accolto negli spazi espositivi del museo in un’atmosfera magica.


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La crisi come opportunità. Cosa ci sta indicando il coronavirus?

4/23/2020

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IL CORONAVIRUS NON CI FA ANDARE ALLE FIERE, ALLE MOSTRE AFFOLLATE, AI VERNISSAGE… E SE COGLIESSIMO L’OCCASIONE PER RICOMINCIARE A GUARDARE DAVVERO LE OPERE? SE TORNASSIMO AD APPREZZARE UN DIVERSO TEMPO DI FRUIZIONE?

Mentre in giro nel Paese si sono diffuse in poco tempo ansia e preoccupazione per la situazione che si è venuta a creare (e mentre in parecchi invece si affannano a dimostrare a tutti i costi il proprio cinismo e menefreghismo), forse è utile iniziare a ragionare non solo sui vari ‘impatti’ ed effetti che il virus sta avendo e avrà su arte e cultura, ma anche su come queste possono eventualmente reagire.
È qualcosa che comunque prima o poi bisognerà fare (e già si sta facendo, ad esempio su Che fare? e Zero), dal momento che ciò che viene messo in crisi – come si vede dal costante rinvio, in questi giorni, di eventi e appuntamenti in Italia – è proprio in qualche modo la modalità di fruizione delle opere e dei contenuti: il consumo, per dirne una (il fatto proprio che opere e contenuti debbano essere consumati, che il consumo sia l’unico approccio possibile a essi); la velocità, soprattutto, sia degli spostamenti necessari a raggiungere l’evento, sia della visione; il fatto che quindi, di solito, il massimo dei risultati in termini di “pubblico” richieda una tale estrema concentrazione nello spazio e nel tempo (l’inaugurazione della mostra, la fiera, il festival ecc.); infine, il fatto che da parecchi anni qualsiasi risultato sia misurato e misurabile esclusivamente in termini appunto di pubblico, di quantità cioè di gente raggiunta (e che quindi il criterio quantitativo decreti quello qualitativo, coincidendo di fatto con esso). Ciò che entra in crisi è cioè un modello.
È ovvio, nessuno sta dicendo che dall’oggi al domani si possa demolire un’intera impostazione per fondarne, quasi dal nulla, un’altra; però, i momenti di emergenza di solito sono utili (cosa che forse l’Occidente non ha imparato del tutto, per esempio, in occasione della crisi del 2008) a pensare. Il panico può paralizzare, è vero, ma può anche costringerci a intravedere qualcosa che fino a quel preciso momento – di solito per pigrizia, per timore, perché “si-fa-così” e “così-va-il-mondo” – era stato magari scartato, o neanche riconosciuto. Così come sta avvenendo in molti campi lavorativi, ciò che purtroppo viene messo in discussione è il modo in cui ci siamo abituati a fare le cose: applicato a questo campo, il fatto per esempio che negli ultimi decenni sia diventato normale e necessario per il sistema dell’arte – carovana di gente colta e benvestita – andare da una parte all’altra del globo, indulgere morbosamente al sovraccarico informativo, essere presenti ossessivamente a tutto.

L’IMPORTANZA DEL TEMPO

Ovviamente, questo processo ha influenzato in profondità il modo in cui, per esempio, osserviamo le opere – e così la percezione distratta all’interno di una fiera è divenuta il riferimento piuttosto che l’eccezione; e magari la concentrazione sul suo “contorno”, su ciò che la circonda in termini di comunicazioni e di relazioni preferibile per molti versi a quella su ciò che l’opera è effettivamente, e su come funziona.
La condizione difficile in cui ci troviamo può avere almeno questo di positivo: di concederci la possibilità di provare a riflettere su come è costruito un sistema così fragile, in fondo.
Innanzitutto, il tempo: più o meno tutti saremo d’accordo, credo, sul fatto che se parliamo di opere d’arte questa è la dimensione più sacrificata, e quella che va in qualche modo recuperata. La dilatazione del tempo a disposizione, anche la sua dissipazione se vogliamo, è un’esigenza che si sente in modo sempre più forte, anche se spesso in maniera oscura. All’interno dello schema attuale mostra/fiera/biennale il tempo è, come si è visto, scarsissimo, ridotto praticamente all’osso: e uno degli effetti è stato che man mano, nel corso dell’ultimo trentennio, anche le opere si sono naturalmente, quasi biologicamente, adeguate a questo brevissimo tempo di fruizione, inseguendo spesso il sensazionalismo, il gigantismo, oppure iper-semplificandosi – o addirittura queste tre cose insieme, in alcuni casi – pur di attirare l’attenzione dello spettatore e del collezionista e dell’istituzione.

UNA FRUIZIONE DIVERSA

È chiaro che, per dilatare il tempo, l’opera ha a disposizione almeno due strade: quella digitale, indicata dalla net.art e da molte delle pratiche che vanno sotto il nome un pochino confuso di post-internet; e quella di una fruizione dell’opera intima, domestica e/o comunitaria. Detto in parole povere: non tante, tantissime persone in uno spazio iper-concentrato (lo spazio espositivo), ma poche persone per volta, distribuite quindi nel tempo, che non consumano oggetti e contenuti (compresi ovviamente quelli relazionali) ma che vivono un’esperienza (l’opera) all’interno del proprio spazio quotidiano.
Queste (e altre) sono esigenze che non nascono certo ora, ma che di epoca in epoca assumono aspetti diverse (gli Anni Sessanta e Settanta si erano già posti questo tipo di problema, elaborando soluzioni – per dire: happening-performance-body art-land art-arte concettuale – che poi nel tempo sono state prontamente riassorbite all’interno del circuito mercato/consumo/evento, come del resto è naturale che avvenga, di volta in volta) che quindi necessitano ogni volta anche di forme nuove; sono esigenze che ovviamente preesistono all’emergenza, ma forse l’emergenza è un’occasione per riflettere su di esse, e per cominciare a metterle in prospettiva.
Poi uno può benissimo dire, una volta che tutto sarà superato: no, non mi va, desidero che tutto torni esattamente come era prima.
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Arte balsamo della psiche

4/15/2020

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Com’è cambiata la vita degli artisti durante la quarantena? Come sono mutate le loro abitudini, il loro sentire, il loro lavoro?

Com’è cambiata la vita degli artisti durante la quarantena? Come sono mutate le loro abitudini, il loro sentire, il loro lavoro?
L’aria sospesa, gli spazi dilatati, i silenzi, il fluire sordo del tempo. L’attesa pervasa di un chiarore surreale e indefinito che scandisce le vite della quarantena. Abbiamo chiesto a una serie di raccontarci lo scorrere del tempo dalle proprie case, trasformate in temporanei atelier. La vita di un artista ai tempi della pandemia.

Come passate la giornata, dove e come lavorate? A cosa state lavorando?
Lo strumento principale è il laptop, la nostra ricerca avviene principalmente nel web ecco perché la modalità di lavoro non è cambiata rispetto ai giorni precedenti la quarantena. Abbiamo un piccolo studio all’interno del nostro appartamento berlinese dove è più facile e metodico raccogliere le nostre idee. In questo momento la nostra attività principale è quella di portare avanti il progetto The Sweat Museum iniziato nel 2018 con la nostra personale ad Istanbul. Un progetto complesso perché partendo dal contesto sociale dei Gestarbeiter turchi (guest workers) nella Germania Ovest degli anni 50 allarghiamo il discorso alla nostra situazione di espatriati focalizzando lo sguardo sull’impegno e la fatica che ogni essere umano compie di fronte ai cambiamenti nella vita di tutti i giorni. Stiamo raccontando tutto questo attraverso la metafora del sudore come riflesso corporeo ai cambiamenti, preparando un vero e proprio archivio dove oggetti, maquette, fotografie, testi, e video raccontano i diversi aspetti di questo liquido e di come venga percepito ed analizzato nella comunicazione, la politica, la religione e il marketing. Il prossimo step sarà un video multicanale in collaborazione con il curatore Sarp Renk Özer con il quale stiamo portando avanti un ulteriore progetto dislocato tra Berlino, Istanbul e Milano dove svilupperemo una riflessione intorno alle nuove pratiche artistiche. Per questo motivo passiamo le nostre giornate facendo lunghe telefonate via Skype.

Tempo, Spazio, Suono. Concetti ricalibrati, relativi, riformulati…
Il tempo è soggetto a ritmi più dilatati; lo spazio fisico è quello dell’appartamento al quale si aggiunge quello virtuale del web; i suoni quelli di una città più silenziosa.
Leggere, scrivere, riflettere.
Osservare dalla finestra le vite dei vicini non è mai stato così interessante.
Prima cosa che farete quando finisce quarantena?
Frequentare luoghi molto affollati.
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